- Di: Gabriele Braccioni
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Appropriazione indebita di files e responsabilità penale
I files possono rientrare nel concetto penalistico di cosa mobile? Come conciliare l’immaterialità del bene con la condotta di apprensione della res materiale prevista dall’art. 646 c.p?
Con la sentenza in esame il Tribunale di Urbino affronta il tema della configurabilità della responsabilità penale del dipendente che copia documenti informatici aziendali in mancanza del consenso del titolare, ma senza che all’operazione di copia sia seguita la cancellazione dell’originale.
La vicenda.
Un dipendente di un’azienda, dopo essersi licenziato, l’ultimo giorno di lavoro veniva sorpreso alla postazione del computer aziendale con un dispositivo di archiviazione di massa USB inserito nel computer aziendale. I responsabili dell’azienda, temendo che l’ormai ex dipendente stesse sottraendo o copiando dei file dal server aziendale, verificavano il contenuto della penna USB e constatavano la presenza di alcuni file relativi a progetti realizzati dal dipendente per l’azienda in costanza di rapporto di lavoro.
L’azienda presentava pertanto querela per la violazione dell’art 621 c.p. (rivelazione del contenuto di documenti segreti) e dell’art. 623 c.p. (rivelazione di segreti scientifici e industriali). Durante le indagini la Polizia Giudiziaria eseguiva un accesso presso l’abitazione dell’indagato e rinveniva ulteriori file riconducibili all’azienda nel PC casalingo.
La procura, riqualificato il fatto diversamente da come configurato in querela, disponeva il rinvio a giudizio dell’imputato per la violazione dell’art. 646 c.p. (appropriazione indebita).
Il processo.
L’istruttoria dibattimentale permetteva di accertare che l’imputato in effetti aveva copiato alcuni progetti realizzati da lui stesso per conto dell’azienda, ma non aveva cancellato i corrispondenti originali che, pertanto, si trovavano ancora sul server aziendale.
Tale circostanza veniva confermata dalla parte civile e da altri testimoni, i quali tutti riferivano di aver verificato la corrispondenza tra il contenuto della penna USB rinvenuta all’imputato e i file ancora presenti sul server aziendale.
Emergeva altresì che il divieto di copiare documenti dell’azienda su supporti informatici era espressamente previsto dalla policy aziendale, in particolare in relazione ai documenti rinvenuti nella penna USB dell’imputato che riguardavano disegni tecnici coperti da segreto industriale ed oggetto di clausola di riservatezza e non divulgazione. A dire il vero a seguito della scoperta della condotta del dipendente non seguiva neppure una contestazione disciplinare che, al di là della cessazione del rapporto di lavoro, avrebbe potuto avere rilevanti conseguenze sul piano civile, atteso che la policy aziendale sottoscritta dal dipendente prevedeva una penale fino ad € 50.000 in caso di violazione della normativa interna sulla non divulgazione dei disegni tecnici materialmente appresi dall’imputato.
L’azienda datrice di lavoro si limitava, invece, a sporgere querela.
La decisione.
Sulla scorta di quanto emerso dall’istruttoria la difesa chiedeva l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” in quanto la condotta emersa in giudizio non integrerebbe la fattispecie astratta prevista dalla norma incriminatrice, la quale espressamente prevede lo spossessamento quale elemento qualificante.
Il giudice, premessi alcuni cenni sulla nozione di “cosa mobile” nel diritto penale, faceva buon governo del principio espresso dalla sentenza di Cassazione, Sez. II, n. 11959 del 13 aprile 2020, con la quale la Suprema Corte ha stabilito che “i dati informatici (files) sono qualificabili come cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi di lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer formattato”. In particolare il Giudice Urbinate ha condiviso il principio puntualizzato dalla citata sentenza della Suprema Corte secondo cui “ove l’appropriazione venga realizzata mediante condotte che mirano non solo all’interversione del possesso legittimamente acquisito dei dati informatici, in virtù di accordi negoziali e convenzioni che legittimano la disponibilità temporanea di quei dati, con obbligo della successiva restituzione, ma altresì a sottrarre definitivamente i dati informatici mediante la loro cancellazione, previamente duplicati e acquisiti autonomamente nella disponibilità del soggetto agente, si realizza il fatto tipico della materiale sottrazione del bene, che entra a part parte in via esclusivo del patrimonio del responsabile della condotta illecita”.
La sentenza della Suprema Corte sopra citata ha risolto un’impasse interpretativo insorto in ordine alla configurabilità della responsabilità penale delle condotte di spossessamento di un bene mobile (documento informatico) tradizionalmente considerato immateriale.
Alcune precedenti pronunce infatti, muovendo dal presupposto che l’immaterialità del bene informatico fosse incompatibile con la materiale apprensione del bene richiesta dalla norma incriminatrice, avevano tratto la conseguenza che non si potesse integrare la fattispecie ogniqualvolta il “bene” oggetto della condotta fosse informatico (Cassazione, Sez. IV, sentenza n. 44848 del 26 ottobre 2010; Sez. IV sentenza n. 3449 del 13 novembre 2003).
La sentenza n. 1959 del 2020 ha effettuato una revisione del concetto di “cosa mobile” facendovi rientrare anche i file in quanto, secondo le nozioni informatiche comunemente accolte, anch’essi sono “elementi dotati di una propria fisicità” e pertanto astrattamente suscettibili di essere “trasferiti da un luogo ad un altro”. Conseguentemente riteneva sussistente la responsabilità penale per appropriazione indebite dell’imputato che aveva cancellato i dati e restituito il computer aziendale “formattato”.
Focalizzando la propria attenzione sugli elementi indicati dalla Suprema Corte, il Giudice urbinate ha correttamente scrutinato la condotta materiale consistita nel “copiare” i file sulla memoria USB lasciando l’originale nel server aziendale, traendo la conclusione che tale condotta non abbia determinato una definitiva sottrazione del file, che sarebbe realizzabile unicamente con la contestuale “cancellazione dei dati o con la formattazione del dispositivo”.
Facendo una corretta applicazione a contrario dei principi sopra esposti, il Giudice assolveva pertanto l’imputato perché “il fatto non sussiste” difettando l’elemento costitutivo della condotta di appropriazione di cui all’art. 646 c.p., mancando la definitività della sottrazione in ragione del fatto che l’imputato si era limitato a copiare i file sulla propria pennetta.
Avv. Gabriele Braccioni
Riferimenti normativi 646 c.p.p.
Cassazione, Sez. II, sentenza n. 11959 del 13 aprile 2020