- Di: Gabriele Braccioni
- ordine di servizio
- Feb 9
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Ordine di servizio del dirigente: quando è possibile ignorarlo?
La Cassazione, con la sentenza Sent., (ud. 25-09-2018) 30-11-2018, n. 31086, è intervenuta sul mancato ottemperamento ad un ordine di servizio impartito dal Dirigente Scolastico ed ha affermato dei principi di diritto importanti.
1. La normativa
In base a costanti indirizzi della giurisprudenza, la facoltà del dipendente di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito – secondo quanto previsto dall’art. 89 del CCNL del Comparto Scuola per il quadriennio normativo 2002/2005 (norma recepita nel successivo contratto all’articolo 92 per gli ATA) – è così disciplinato: “se ritiene che l’ordine sia palesemente illegittimo, il dipendente deve farne rimostranza a chi l’ha impartito dichiarandone le ragioni; se l’ordine è rinnovato per iscritto ha il dovere di darvi esecuzione. Il dipendente, non deve, comunque, eseguire l’ordine quando l’atto sia vietato dalla legge penale o costituisca illecito amministrativo” (Cons. Stato, Sez. 5, sentenza 15 dicembre 2008, n. 6208);
La “palese” illegittimità dell’ordine corrisponde ad una vera e propria (oggettiva) illegittimità dell’ordine stesso che – anche se non riguardi il compimento di un atto vietato dalla legge penale o costituente illecito amministrativo (come tale da non eseguire) – comunque deve essere affetto da un vizio di legittimità, cioè da uno dei vizi tipici degli atti amministrativi o da altri vizi, che nella specie rilevano come violazioni dei generali principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., devono essere rispettati dalla PA nell’emanazione degli atti che rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (quali sono quelli di cui si discute nel presente giudizio).
1.1 L’articolo 17 del DPR del 1957.
L’impiegato, al quale, dal proprio superiore, venga impartito un ordine che egli ritenga palesemente illegittimo, deve farne rimostranza allo stesso superiore, dichiarandone le ragioni. Se l’ordine è rinnovato per iscritto, l’impiegato ha il dovere di darvi esecuzione. L’impiegato non deve comunque eseguire l’ordine del superiore quando l’atto sia vietato dalla legge penale.
L’articolo 17 è quello che trova direttamente applicazione per il personale docente e non prevede la possibilità in caso di reiterazione dell’ordine, della mancata esecuzione in caso di illecito amministrativo. Cosa che invece è contemplata per il personale ATA.
2. Il Codice di Comportamento dei dipendenti Pubblici.
In questa cornice il riferimento alla soggettiva percezione da parte del destinatario dell’ordine non elide la necessità di una illegittimità “palese”, ma è finalizzata a fare sì che tutti i dipendenti pubblici, di ogni ordine e grado, collaborino alla legalità dell’agire della PA in cui prestano servizio, in attuazione di quanto previsto dall’art. 54 Cost., comma 2, in base al quale: “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
Non a caso anche il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (di cui al D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62) all’art. 9, comma 2, stabilisce che “la tracciabilità dei processi decisionali adottati dai dipendenti deve essere, in tutti i casi, garantita attraverso un adeguato supporto documentale, che consenta in ogni momento la replicabilità” e all’art. 12, comma 1, prevede che: “nelle operazioni da svolgersi e nella trattazione delle pratiche il dipendente rispetta, salvo diverse esigenze di servizio o diverso ordine di priorità stabilito dall’amministrazione, l’ordine cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia tenuto con motivazioni generiche”.
Certamente tale Codice è espressione dei profondi mutamenti normativi che si sono registrati nel tempo in materia di rapporti di lavoro pubblico contrattualizzato, con la principale finalità di aumentare l’efficienza e la correttezza dell’azione della PA (in materia di interpretazione evolutiva: Cass. 13 aprile 2016, n. 7313; Cass. 30 dicembre 2011, n 30722; sul codice di comportamento citato, tra le tante: Cass. 14 febbraio 2018, n. 3622).
Ne risulta confermato che non sussiste un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, visto che il dovere di obbedienza incontra un limite nell’obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto (Corte dei Conti Sicilia, sentenza 27 marzo 2014, n. 117).
Ma è evidente che si deve trattare di un’obiezione ragionevole che si basi su una reale illegittimità dell’ordine e che può essere esternata e percepita anche soltanto dal destinatario dell’ordine medesimo, ma nel suo ruolo di “sentinella” e di collaboratore ad assicurare la legalità dell’Amministrazione, che gli deriva dall’art. 54 Cost., comma 2 e non per finalità, ragioni e percezioni meramente personali e soggettive.
E’ in quest’ottica che la normativa di legge e contrattuale stabilisce che l’esercizio della facoltà del dipendente di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito, richiede, oltre alla palese illegittimità dell’ordine, anche che il dipendente non si limiti ad un mero rifiuto, ma concreti le sue motivate obiezioni, indicando le ragioni con dichiarazioni indirizzate a colui dal quale proviene l’ordine (Cass. 15 febbraio 2008, n. 3802).
3. I limiti del dovere di obbedienza
A riguardo sono stati espressi i seguenti principi di diritto:
- “la norma – prevista dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 17 e dalla contrattazione collettiva di vari Comparti – che attribuisce al dipendente pubblico la facoltà di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito, “se ritiene che l’ordine sia palesemente illegittimo” deve essere interpretata nel senso che la “palese” illegittimità dell’ordine corrisponde ad una vera e propria (oggettiva) illegittimità dello stesso che – anche se non riguardi il compimento di un atto vietato dalla legge penale o costituente illecito amministrativo (come tale da non eseguire) – comunque deve derivare da un vizio di legittimità, cioè da uno dei vizi tipici degli atti amministrativi o da altri vizi, che nella specie rilevano come violazioni dei generali principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., devono essere rispettati dalla PA nell’emanazione degli atti che rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (quali sono quelli di cui si discute). In questa cornice il riferimento alla soggettiva percezione da parte del destinatario dell’ordine non elide la necessità di una illegittimità “palese”, ma è finalizzato a fare sì che tutti i dipendenti pubblici, di ogni ordine e grado, collaborino alla legalità dell’agire della PA in cui prestano servizio, in attuazione di quanto previsto dall’art. 54 Cost., comma 2, in base al quale: “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Nello stessa ottica va inteso il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (di cui al D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62) – utilizzabile in chiave di interpretazione evolutiva – secondo cui: “la tracciabilità dei processi decisionali adottati dai dipendenti deve essere, in tutti i casi, garantita attraverso un adeguato supporto documentale, che consenta in ogni momento la replicabilità” (art. 9, comma 2), ma “nelle operazioni da svolgersi e nella trattazione delle pratiche il dipendente rispetta, salvo diverse esigenze di servizio o diverso ordine di priorità stabilito dall’amministrazione, l’ordine cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia tenuto con motivazioni generiche” (art. 12, comma 1);
- come si desume dalla norma – prevista dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 17 e dalla contrattazione collettiva di vari Comparti – che attribuisce al dipendente pubblico la facoltà di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito, non sussiste un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, visto che il dovere di obbedienza incontra un limite nell’obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto. Peraltro, deve trattarsi di un’obiezione ragionevole che si basi su una reale e oggettiva illegittimità dell’ordine e che può essere esternata e percepita anche soltanto dal destinatario dell’ordine medesimo, ma nel suo ruolo di “sentinella” e di collaboratore ad assicurare la legalità dell’Amministrazione, che gli deriva dall’art. 54 Cost., art. 17 e non per finalità, ragioni e percezioni meramente personali”.
Da ricordare che la Cassazione che sentenza n. 9736 del 19/4/2018 ha affermato che il lavoratore non può rifiutarsi di eseguire ordine di servizio se reiterato:
“Più in generale il lavoratore può chiedere giudizialmente l’accertamento della legittimità di un provvedimento datoriale che ritenga illegittimo, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via d’urgenza), di eseguire la prestazione lavorativa richiesta, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., e può legittimamente invocare l’eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., solo nel caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro sia totale (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 831 del 2016 e n. 18866 del 2016). Tali principi trovano applicazione nel rapporto di pubblico impiego privatizzato, anche in ragione del rinvio operato dall’art. 2, co. 2, d.lgs. n. 165/01.”