- Di: Gabriele Braccioni
- tackle
- Feb 8
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Calcetto tra amici: il "tackle" è scriminato
La recente sentenza della Corte di Cassazione penale, Sez. IV, del 31 gennaio 2022, n. 3284 ha affrontato il tema del rischio consentito nelle attività sportive agonistiche secondo una diversa prospettiva.
- Il Caso
La pronuncia in esame consegue dalla condanna inflitta in primo grado ad un uomo per il reato di lesioni colpose, cagionate ad un avversario nel corso di una partita di calcio a cinque e provocategli a seguito di un contrasto (tackle) che aveva determinato una malattia di durata superiore ai quaranta giorni. La S.C. ha ritenuto erronea l’affermazione di responsabilità laddove era stata fatta discendere dalla gravità delle lesioni ed ha diversamente affermato il principio secondo cui “non è l’entità del danno cagionato a discriminare l’azione illecita, ma la travalicazione della norma cautelare prestabilita che renda prevedibile l’evento, sia perchè disapplicata, sia perchè inutilmente trascesa, al fine del raggiungimento del risultato“.
- La disciplina
In generale l’esercizio di attività sportiva viene considerata una causa di giustificazione non codificata, cioè un meccanismo con il quale l’ordinamento consente l’assunzione del rischio della lesione di un interesse individuale relativo alla integrità fisica.
Tale esimente presuppone – in ogni caso – che non sia travalicato il dovere di lealtà sportiva. Devono cioè essere rispettate le norme che disciplinano ciascuna attività e l’atleta avversario non deve essere esposto ad un rischio superiore a quello consentito in quella determinata pratica ed accettato dal partecipante medio (Cass. pen. sez. IV, n. 2765 del 12/11/1999, CED Cass. 217643; Cass. pen. sez. V, n. 9627 del 30/04/1992, CED Cass. 192262).
In questa prospettiva il rischio consentito coinciderebbe con quanto non sanzionato dei regolamenti sportivi.
L’area del rischio consentito deve pertanto ritenersi corrispondente con quella delineata dal rispetto di quest’ultime regole, che individuano, secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal regolamento sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, in forma agonistica, un determinato sport.
Le regole tecniche mirano, infatti, a disciplinare l’uso della violenza, intesa come energia fisica positiva, tale in quanto spiegata – in forme corrette – al perseguimento di un determinato obiettivo, conseguibile vincendo la resistenza dell’avversario.
Di contro, quando la lesione all’incolumità personale sia cagionata dalla violazione della regola sportiva, la condotta potrebbe non beneficiare della scriminante ed è proprio in relazione al superamento del limite regolamentare che la giurisprudenza si interroga sul confine fra l’illecito sportivo e l’illecito penale. Nel cercare di tracciare questo confine, i giudici di legittimità hanno ritenuto che illecito sportivo, cui conseguano lesioni, ed illecito penale non coincidano necessariamente, essendoci un’area in cui l’elusione della regola sportiva, che rappresenti lo sviluppo fisiologico dell’azione finalisticamente rivolta al conseguimento del risultato, e non sia connotata da volontarietà, non integra l’illecito penale.
Al contrario, quando la violazione della regola sia voluta e sia deliberatamente piegata al conseguimento del risultato, con cieca indifferenza per l’altrui integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla, allora, in caso di lesioni personali, si entra nell’area del penalmente rilevante, con la duplice prospettiva del dolo o della colpa.
Responsabilità sportiva e responsabilità penale, infatti, si muovono su piani parzialmente diversi e solo parzialmente intersecanti, essendo la prima disciplinata dai rispettivi regolamenti, che definiscono i limiti della correttezza del gioco, la seconda potendo sussistere solo quando l’evento lesivo derivi da una condotta dolosa o colposa dell’agente.
- La decisione
Emerge, dunque, la diversità, colta dalla S.C., fra l’illecito sportivo e l’illecito penale: la valutazione e il rilievo del primo (sportivo) spetta all’arbitro, mentre il secondo (penale) è di competenza del giudice il quale deve rifarsi ai criteri ordinari della colpa, fissati dall’art. 43 c.p., individuando non solo la regola cautelare preesistente, che impone la condotta doverosa di astensione nei limiti propri della disciplina lecita, ma anche i limiti della sua applicazione in termini di prevedibilità dell’evento, essendo al contempo imposto al giudice di verificare se l’azione, che rientri nel lecito sportivo, in quanto non violante alcuna regola, sia posta in essere nei limiti della prudenza, in modo da non cagionare, per l’eccesso nella gestione del gesto atletico o per l’eccessività ed inutilità al fine sportivo del contrasto opposto, un danno prevedibile all’altrui integrità fisica.